Mostra di scarabografie, manoscritti, dipinti
Risorse vitali nel malessere dell’inclusione e dell’esclusione sociale
La ricerca sociale della cooperativa Sensibili alle foglie, nata con un’attenzione specifica alle istituzioni totali ed ai luoghi dell’esclusione, si è successivamente ampliata fino a raggiungere le istituzioni ordinarie. Questo passaggio si è sviluppato attraverso l’utilizzo di una metodologia che mette a confronto i dispositivi relazionali emblematici delle istituzioni totali (carceri, manicomi, manicomi giudiziari, bracci della morte, campi di concentramento, ospizi) e le risorse di sopravvivenza attivate dalle persone recluse, con i dispositivi relazionali e le risposte di sopravvivenza operanti in istituzioni ordinarie (istituzioni scolastiche, sanitarie, commerciali, del lavoro e del tempo libero).
Mettendo a confronto i dispositivi delle istituzioni preposte all’inclusione sociale con quelli propri delle istituzioni che gestiscono l’esclusione, si riscontrano differenze e scarti, ma anche forti analogie e inquietanti sovrapposizioni.
Infatti, il processo di inclusione della persona nei codici che regolano le istituzioni della vita sociale comporta, per chi lo vive, l’esclusione di quelle parti di sé che mal si adattano a quei codici e questo adattamento alla ‘normalità’, la determinazione a restare entro le sue perimetrazioni, è fonte di malessere.
In ogni istituzione ordinaria, inoltre, sono potenzialmente all’opera quei dispositivi relazionali che caratterizzano le istituzioni totali. Qualora essi trovino condizioni favorevoli per manifestarsi, uno o più attori di quella specifica istituzione subiscono una vasta gamma di torsioni e mortificazioni. I dispositivi relazionali totalizzanti, ovunque agiscano, in un manicomio o in una comunità terapeutica, in un carcere o in una scuola, in un’azienda o in un campo di concentramento, costituiscono quindi una fonte di malessere.
Una delle principali risposte umane all’azione dei dispositivi totalizzanti consiste nella creazione di mondi simbolici, in chiave sia difensiva sia rigeneratrice, là dove il senso della vita si appanna. Qualunque sia il linguaggio espressivo usato – scarabocchio, disegno, dipinto, scrittura – l’atto creativo rappresenta, per la persona che lo produce, una risorsa vitale e, per la società, un documento significativo di quella condizione mortificante.
La mostra
In questo quadro la cooperativa Sensibili alle foglie propone una mostra che valorizza i linguaggi espressivi prodotti nelle istituzioni totali e nei luoghi dell’esclusione sociale, e le scarabografie, i diari, i graffiti, nati nelle istituzioni dell’inclusione.
Questi materiali, che possono essere esposti in modo separato attraverso due mostre itineranti: “Luoghi senza tempo e senza forma” e “Scrizioni ir-ritate”, si integrano in un progetto culturale ed espositivo che propone l’insieme dei linguaggi espressivi generati nella sofferenza umana connessa al dispositivo di inclusione/esclusione caratteristico della civiltà in cui viviamo.
La ricerca socianalitica che Sensibili alle foglie porta avanti guarda all’espressione creativa come al prodotto di una “dissociazione identitaria”, come un’elaborazione mediante cui una componente identitaria aiuta la persona nel suo insieme a lenire una condizione di sofferenza e a non lasciarsi morire. Il concetto di “dissociazione identitaria”, come evidenziano le ricerche sugli stati modificati di coscienza pubblicate dalla cooperativa, non è inteso in chiave patologica bensì fa riferimento ad una visione della persona come insieme di “esistenze psicologiche simultanee”.
In ogni persona può emergere un’identità creatrice, di semplice resistenza ad un contesto mortificante o anche di ampliamento della consapevolezza individuale. Un esempio può essere lo scarabocchio. Durante una lezione monotona, una riunione di lavoro asfissiante, una telefonata noiosa, mentre una parte della persona continua il proprio impegno nella relazione in atto, accade che “la penna scrive da sola come sospesa da un altro pensiero e un mondo parallelo sbuca nel cervello, lo invade e lo porta con sé”.
L’esposizione in oggetto, poiché propone opere che vanno dal dipinto allo scarabocchio, dal manoscritto al graffito, si presenta, più che come una mostra d’autori, come una rassegna di identità creatrici, spesso senza nome, come nel caso degli scarabocchi o con firme inventate come nel caso delle tag, dei writer metropolitani.L’operazione linguistica che queste identità costruiscono ricombina segni già noti secondo regole singolari. Questo genere di manipolazione è normalmente rifiutato e riprovato dalla cultura ufficiale o perché non viene praticato da figure istituzionalmente autorizzate o perché dilaga in spazi non autorizzati. Come i manoscritti o i dipinti delle persone manicomializzate venivano cestinati o interpretati come segni di conferma della presunta malattia mentale dell’autore, così gli scarabocchi degli studenti vengono talvolta rapidamente cancellati, altre volte possono diventare motivo di provvedimenti disciplinari o addirittura venire annoverati fra le patologie del comportamento scolastico da trattare farmacologicamente. La mostra presenta anche una profondità antropologica sia per la complessità di segni che propone, sia per la possibilità che offre di indagare l’origine del segno. Emmanuel Anati, ricercatore di scrizioni originarie, che ha indagato la nascita dell’arte e della concettualità, ha notato che tutta la produzione di segni dell’umanità si è addensata nei luoghi in cui le popolazioni migranti hanno incontrato degli ostacoli. Quando l’uomo è giunto a ridosso di queste soglie, di questi limiti – le masse oceaniche, le barriere montuose – ha sentito il bisogno di una produzione simbolica, come se questa gli consentisse di oltrepassare quel limite. Questa metafora induce ad una considerazione: quando le persone incontrano un dispositivo relazionale che le obbliga a segnare il passo, che le stringe con le spalle al muro, inventano nuove possibilità di senso e nuovi modi di orizzontarsi nella vita. La mostra offre quindi la possibilità anche di osservare con uno sguardo diverso le risposte adattative dell’umanità, in una prospettiva di accoglimento delle persone nella loro complessità identitaria.
Proposta espositiva
La mostra si articola in sezioni espositive, che corrispondono a grandi spazi istituzionali dove agiscono dispositivi relazionali mortificanti: il carcere, la scuola, le istituzioni lavorative, il campo di concentramento, l’ospedale, l’ospizio, le istituzioni psichiatriche, il manicomio giudiziario, la famiglia, la strada.I linguaggi esposti: scarabografie, scritture, disegni, dipinti, sculture. Queste forme espressive sono state agite su ogni tipo di supporto, da quelli più tradizionali, fino ad arrivare alle strutture ed agli arredi delle istituzioni di provenienza; valgano come esempio le due porte che compongono la mostra: la porta del manicomio di Imola e quella dell’istituto tecnico E. Fermi di Tivoli (RM).
Dal punto di vista quantitativo la mostra si compone di diverse centinaia di pezzi che vanno dal fogliettino scarabocchiato alle grandi opere pittoriche. L’esposizione necessita, per essere efficace, di uno spazio, preferibilmente suddiviso in più locali, della misura complessiva di 150 mq.
L’esposizione ha una struttura didascalica. Ogni autore è accompagnato da una scheda che illustra il contesto istituzionale nel quale è affiorata la vena creativa e le caratteristiche della sua modalità espressiva; ogni produzione simbolica, della quale vengono descritte le caratteristiche generali, viene contestualizzata in rapporto al dispositivo relazionale nel quale si è generata. Altre schede illustrano il lavoro di socioanalisi istituzionale svolto dalla cooperativa nelle istituzioni di provenienza di molte delle opere esposte che rappresentano anche documenti riguardanti l’ecologia relazionale di quella istituzione. In caso di esposizione all’estero, le schede sono naturalmente tradotte nella lingua del paese ospitante.
Interlocutori sociali
La funzione principale della mostra è quella di sollecitare un lavoro ad ampio raggio di consapevolezza sociale. Consapevolezza dei dispositivi di inclusione/esclusione che risultano mortificanti per gli esseri umani e dai quali origina il malessere che li accomuna, delle risorse creative che aiutano ad aggirarlo o ad elaborarlo, e di un’ecologia relazionale che accoglie e valorizza la persona evitando di mortificarla.
La mostra oltre a sollecitare l’interesse del grande pubblico può essere validamente utilizzata per educare alla creatività e ad una cittadinanza solidale e sensibile. Le scuole, anche per la presenza massiccia nella mostra di linguaggi giovanili, possono costituire uno dei principali interlocutori sociali. Essa però rappresenta uno strumento valido per tutti gli operatori sociali e istituzionali nonché per diverse professionalità: educatori, medici, psicologi, sociologi, operatori del mondo dell’arte.
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