Scarabocchi e arte

di Pablo Echaurren

Scarabocchio di Pablo Echaurren

Intervento di Pablo Echaurren, pittore, al seminario sugli scarabocchi tenutosi nella Casa di Sensibili alle foglie a Roma, nel febbraio 1995.

Fino a pochissimo tempo fa nessuno si sarebbe sognato di fermare la propria attenzione su uno scarabocchio, meno che mai raccoglierlo, studiarlo. Non esisteva neanche la grande disponibilità di carta su cui produrli, i bambini si servivano per tracciarli, forse, piuttosto dei muri, della polvere, della sabbia. Ma oggi allo scarabocchio si comincia ad attribuire addirittura un valore “artistico”. Come mai?

Lo scarabocchio rappresenta una fase comune sia allo sviluppo dell’individuo che dell’evoluzione della specie. Il bambino progredisce dallo scarabocchio elementare, quelli che Rhoda Kellogg chiama tracciati fondamentali, verso un sempre maggiore realismo visivo. Così fa anche l’Uomo, la storia dell’arte segue pressappoco lo stesso percorso. Dai primi segni alle pitture rupestri.

Ci sono diversi livelli di lettura dell’arte primitiva. Uno può essere quello puramente estetico, autogratificante: non c’è dubbio che la composizione, i colori, la complessiva suggestione delle pitture fino ad oggi ritrovate nelle grotte di Lascaux abbiano un fortissimo impatto visuale.

Un altro aspetto può essere quello comunicativo: l’uomo vuole trasmettere alla comunità informazioni, nozioni relative agli animali, alla caccia. Infine, fondamentale, è l’aspetto magico religioso. Disegnare, segnare la preda è un modo di conquistarla, tracciare la sua figura equivale ad appropriarsi della sua “anima”, come si suol dire ancora oggi “catturare l’immagine”. Rappresentare la realtà per non venire da essa dominati.

Col passare del tempo l’uomo si trasforma da cacciatore in coltivatore e le nozioni da registrare saranno sempre più complesse, così come le relazioni tra individui. Da ora in poi alla pittura, per quanto riguarda la semplice comunicazione, si sostituisce prevalentemente la scrittura. Le arti figurative dal canto loro affineranno sempre più la loro specificità verso un realismo più compiuto, attraverso tappe che porteranno la pittura verso la scoperta della prospettiva.

Una qualche competizione con la scrittura pur sempre resterà, tanto che per l’efficacia dell’immediatezza Gregorio Magno definiva la pittura “la Bibbia dei poveri”, accessibile, dunque, anche a quelli, ed erano i più, che non sapevano leggere. Fermo per millenni resterà comunque il valore religioso. Fino a quando in tempi a noi vicini il crollo del sistema di una società gerarchicamente organizzata determinerà la dissoluzione di una visione trascendente della vita collettiva. In breve tempo si sgretola l’idea di “assoluto”, al senso del divino si sostituiscono scienza, tecnica e religione. Alla pittura resta la possibilità della fedeltà della rappresentazione degli oggetti, ma in breve la fotografia toglierà anche questa illusione. L’artista deprivato della materia magica e misteriosa, radicale, che la religione gli offriva comincerà forse a cercare in sé le ragioni del fare. L’uomo come origine dell’uomo, il “selvaggio” o meglio il bambino come fondamento imprescindibile dell’individuo. Bastano tre nomi per capire l’importanza che assume questo viaggio a ritroso verso le origini: Jean-Jacques Rousseau, Paul Gauguin, Giovanni Pascoli. Ciascuno si riferisce ad un diverso campo di indagine: filosofia, pittura, poesia. La primordialità non più rimossa, diviene valore determinante, non si tratta di costringerla nella camicia di forza dell’educazione, ma anzi di servirsene come di un elemento rivitalizzante, questo è il “fanciullino” eterno di Pascoli che vede tutto con meraviglia.

“I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullino” per essi tutto era veramente nuovo e stupefacente, ed è questo stato di grazia aurorale che, secondo Pascoli, il poeta, l’artista, deve ritrovare dentro di sé. Le cose passate attraverso il solo filtro della cultura perdono il senso del mistero.

Giunti dunque al ’900 possiamo dire che il terreno è pronto ad un recupero totale, da parte dell’arte, dello scarabocchio. È infatti del 1902 una emblematica tela di Giacomo Balla dal titolo “Fallimento”. In essa ogni elemento umano è del tutto assente; vi è raffigurata semplicemente una porta chiusa, evidentemente porta di bottega chiusa per fallimento. Ma sulle ante serrate appare, unico segno di vita, la traccia di uno scarabocchio infantile. L’allusione è chiara: l’umanità negata, annientata dalle spietate e rigide regole del mercato, dalla razionalità delle leggi che regolano le relazioni sociali, trova il suo riscatto nel gesto di un bambino. Lì è la creatività, la poesia, l’uomo.

Lo scarabocchio acquista un peso del tutto inedito, è il non-senso che si oppone alla dittatura della “lucidità”, per mezzo di esso è il rimosso che finalmente torna a esprimersi. Tutte le avanguardie artistiche del secolo sembrano fare proprie certe caratteristiche dello scarabocchio: automatismo, illogicità, flusso. Una prima breve traccia, tutta da approfondire, può comprendere le fortissime ascendenze primitive, africane e oceaniche, del cubismo picassiano, ma anche la sua tecnica volutamente imprecisa e approssimata così come appare nelle sue “Demoiselles d’Avignon”.

In Italia Filippo Tommaso Marinetti teorizza già nel 1912 che “lo spirito creatore si libera ad un tratto dal peso di tutti gli ostacoli, e diventa, in qualche modo, la preda di una strana spontaneità di concezione e di esecuzione. La mano che scrive sembra staccarsi dal corpo e si prolunga in libertà assai lungi dal cervello…” Né va dimenticata la pittura futurista degli stati d’animo di Umberto Boccioni e Arnaldo Ginna. Un’attenzione ai disegni dei bambini è manifestata anche ne Il cavaliere azzurro (1912) di Vasilij Kandinskij e Franz Marc dove è scritto: “Il bambino (…) guarda ogni cosa con occhio non assuefatto e ha ancora integra la facoltà di percepire la cosa come tale. (…) In ogni disegno infantile, senza eccezione, abbiamo dunque una spontanea manifestazione della risonanza interiore dell’oggetto”.

I futuristi russi attribuivano enorme importanza a tutti i linguaggi perduti: la lingua delle streghe, la lingua dei boschi, la lingua preistorica, la lingua infantile; plasmando e immaginando parole, suoni e fonemi che vi si potessero riferire, Aleksej Krucenych ed altri costruiscono una lingua nuova detta Zaum. In particolare Krucenych assieme ai bambini scrisse e disegnò diversi notevolissimi libri, il più importante dei quali è Maialini del 1912.

Ma anche i dadaisti quando proclamavano che “Dada non significa nulla. Dada è un prodotto della bocca”, che il pensiero dunque si ferma in bocca, rimandavano alla gratuità e spontaneità assoluta dello scarabocchio, del disegnare pensando ad altro, senza prestarvi attenzione. E la pratica del gioco, del riso, dello sberleffo sono di evidente ascendenza infantile così come tante poesie “maori” e lallazioni tipiche Dada.

Francis Picabia si servirà di veri e propri scarabocchi e semplici tracciati o appunti di operazioni matematiche come si trattasse di disegni compiuti. André Breton invita l’uomo “se conserva ancora un poco di lucidità (…) a volgersi verso la propria infanzia che, per quanto sia stata distorta dalle cure degli educatori, gli si presenta ricca di segreti incantati” e aggiunge “ogni mattina dei bambini partono fiduciosi”.

Il surrealismo ha fatto un culto dell’automatismo psichico, dell’irresponsabilità, dello stato di abbandono e di veggenza. Sarebbe lunghissimo fare la storia dei riferimenti allo scarabocchio che si susseguono dai cosiddetti cadavre exquis (gioco di carta piegata consistente nel far comporre una frase o un disegno da più persone, senza che nessuna di essa possa tener conto delle collaborazioni precedenti) alle esperienze alla mescalina di Henry Michaux. Sarà poi la volta dell’Action painting americana, che ha il suo vertice in Jackson Pollock, che riduce la pittura a segni elementari, a scariche del braccio, a puro impulso.

Infine potremo ancora citare i casi di Gastone Novelli e Cy Twombly che allo scarabocchio hanno fatto un riferimento del tutto esplicito, a volte addirittura “citazionista”. Naturalmente queste sono solo le grandi linee di un discorso ancora tutto da approfondire.

Un’ultima notazione: la parola “scarabocchio” si può scomporre in scarab’occhio. Come lo scarabeo che rotola la sua pallina di sterco è divenuto sacro per gli egizi che lo hanno fatto diventare il loro simbolo del superamento della morte, così lo scarabeo del segno fa rotolare l’occhio su percorsi inconsueti e dimenticati, seguendo derive che permettono e hanno permesso la nascita della nuova pittura.