Tags e graffiti

di Renato Curcio

Tag e graffiti: firme, colori e segni graffiati sulle superfici metropolitane, lucide, pulite, dimesse o sbrecciate. Indifferentemente. Segni di resistenza, forse di rivolta, comunque di esplosione. Tracce variopinte di un malessere sotterraneo che irrompe nelle prospettive omologate come un’imperfezione, un foruncolo sulla pelle di quei muri che i poteri disciplinari vorrebbero sani, puliti, inviolati.

Tag e graffiti li ritroviamo ovunque, come ovunque troviamo scritte, sfoghi e scarabocchi. Sui muri come sulle fiancate dei treni, nelle cabine telefoniche, sotto i ponti delle ferrovie come sulle colonne dei portici tirati a lucido delle strade dedicate allo shopping. E chi scrive marchia col suo ‘pezzo’ il territorio. Urla a chi passa: Esisto anch’io! Ci sono, e questo non è il “tuo” territorio più di quanto non sia anche il “mio”. Racconta a chi guarda una storia silenziosa che affonda le sue radici in quelle aree sociali non ancora o non del tutto addomesticate. Contesta l’uso delle superfici, il loro colore, la loro appropriazione privata. Perché in città “I muri non sono di qualcuno ma di tutti. E non sono affatto puliti ma grigi. E vivere nel grigio è un po’ come stare in galera. E questo non funziona, ti appiattisce la vita. Invece uno schizzo di colore non ci sta proprio male”.

Il tag, la firma, è un genere di linguaggio nato all’inizio degli anni 70 negli USA. Furono i figli degli immigrati non ancora integrati al gusto, all’estetica, all’idea naturalizzata dell’ordine sociale a dargli il primo impulso. E la leggenda metropolitana ricorda “Taky”, figlio appunto di immigrati greci, come l’iniziatore.

Grafismo rapido, veloce, irrispettoso dei canoni calligrafici a cui l’occhio alfabetizzato s’è assuefatto, il Tag è anche un’arte calligrafica che dichiara senza mezzi termini tutta la sua internità alle lettere alfabetiche ed alla scrittura. Una scrittura ir/ritata, creativa, ma pur sempre e anzitutto una scrittura. Una scrittura prodotta da un tagger, da un soggetto, che in solitudine, come ogni altro scrittore, col suo gesto grafico vuole istituire un ponte, farsi vedere; cerca di uscire dal grigio anonimo della disconferma sociale; vuole un occhio che lo ‘legga’ e sia per ciò stesso costretto a porsi perlomeno una domanda: “Chi è mai questo Taky, perché sporca i miei muri?”. Ma il tagger scrive anche per i suoi amici, per le altre crew. Marchia territori difficili, li dissacra con la sua firma fantasiosamente irrispettosa e indefessamente ripetuta, per mostrare a tutti loro la sua capacità di schivare i controlli, il suo coraggio a sfidare i divieti, la sua abilità a raggiungere obiettivi difficili.

In questo il Tag si differenzia dallo scarabocchio: per l’indirizzo che lo anima, l’occhio a cui si volge. Mentre infatti lo scarabocchio, anche se esso è un nome, una firma stilizzata come lo è sempre un tag, si rivolge essenzialmente al suo autore, è a lui che parla ed è per lui che significa i suoi messaggi, il Tag trova il suo significato solo nello sguardo dell’altro, nello sguardo di un lettore che è comunque Altro da quello dello scrittore. Il graffito ha un’altra radice. Prende forma nella cultura nera dei ghetti, nell’ Hip Hop e in quell’invenzione di linguaggi del corpo, della parola e musicali che in precedenza avevano animato la musica Jazz, e dopo quel momento trovano forma nel Rap. Dalla parola del Rap, al moto dello skate, al graffito del writer la soglia è impercettibile e non a caso dunque molto spesso chi fa Rap o skate è anche un writer.

Alle origini, almeno in Italia, il graffito si contamina con la cultura politica dei movimenti ma in tempi più recenti esso subisce una doppia aggressione istituzionale. Da un lato i writer vengono colpiti da multe, denunce (art. 639 e 639 bis del Codice Penale) e perfino violenze anche gravissime. Alcuni writer sulla loro strada hanno trovato anche la morte. Da un altro, molti comuni, tra i quali Roma e Torino, cercano di addomesticarlo. Ovviamente l’addomesticamento del graffito ha come scopo dichiarato quello di ristabilire un potere: il potere di assegnare una proprietà e una funzione agli spazi. Qui si scrive, lì no.

Non c’è solo la rivendicazione del monopolio degli spazi, delle superfici urbane e dei supporti ma anche la rivendicazione di un arbitrio la cui unica legittimazione sta nel potere di fare approvare da un consiglio comunale una legge. Controllo manipolativo e controllo repressivo vanno a braccetto in questa operazione. E così mentre le istituzioni che articolano il primo s’ingegnano nel trovare ‘argomenti’ a favore dei divieti  e delle concessioni, le istituzioni che articolano il secondo colpiscono i trasgressori. Non ci sono eccezioni. Anche gli esempi come quello del X Municipio di Roma, che autorizza le crew ad esercitare i loro ‘happening di restyling urbano’ sui muri della stazione Anagnina una volta all’anno, non costituiscono una eccezione.

Tempo e spazio sono controllati e gestiti dall’istituzione concedente che autorizza ‘a norma di legge’ ciò che prima e dopo questa autorizzazione era e resterà un atto illecito e sanzionabile. Dopotutto si potranno poi anche organizzare ‘visite guidate’ di turisti in questa stazione e servizi per la stampa e la tv che diano un po’ di colore a quella zona grigia. E lo sponsor, la Montana Cans, fornità a titolo promozionale le sue bombolette.

A Torino, poi, il Comune assegna ai ragazzi che vogliono fare graffiti certi muri inutilizzati e chiama ad istruirli writer esperti, un tempo illegali. Ma come osserva un writer della crew TM (Tramble Maker) che non sta a questo gioco, “Secondo me non è proprio una grande cosa. Serve soltanto a penalizzare chi fa ancora writing veramente. Forse aiuta qualche ragazzino a iniziare a fare i graffiti ma toglie ai graffiti tutto il loro significato. Quando vai a fare le gare di writing sotto l’ala del Comune, tutti hanno il loro nome e fanno il graffito con il loro nome. Ma se è una cosa legale, se hai il tempo di farla, non fai vero writing, fai altro.

Il vero writer deve fare i conti col tempo. La sua è una sfida, una comunicazione illegale. Deve fare in fretta. Non farsi beccare. Per questo all’inizio, quando i controlli non erano ancora ossessivi, le scritte erano più estese. Più complesse. Il writer si prendeva il tempo per dire col suo pezzo quello che viveva. Ora invece c’è tempo solo per fare sentire che ci sei, per fare bombing, bombardare”. Sotto questa doppia pressione istituzionale tagger e writer dunque tendono sempre più a confondersi e a confluire in un comune indirizzo: il bombing.

La velocità dell’esecuzione condiziona le tecniche e gli stili. “Se vai a fare un graffito sotto i portici in Piazza Castello devi essere rapido, veloce. Allora lì anche se fai soltanto un bombing, casomai nero-argeto, si nota. Ci sei passato. Mentre invece se vai verso la cintura, mano a mano che esci e tutto diventa più calmo, soprattutto se vai sotto ponti dei treni dove sei proprio tranquillo, vai con le tue bombole, ci passi anche tutto il pomeriggio, e vengono cose veramente belle. E le puoi fare anche senza essere del tutto legale”. Bombardare con segni rapidi e tecniche cooperative diventa così la soluzione al problema del controllo.

Ciò che fa la differenza resta allora il numero dei partecipanti ad una crew.

“A seconda di quanti siamo in una crew cambia il modo di disegnare. Quando si è in pochi si fa soltanto l’argento e il nero, segni di forte impatto, e se ne fanno tanti. Tanti tanti. È quello che viene chiamato bombing, insomma. Quando invece il gruppo è più numeroso facciamo scritture sempre molto veloci ma ‘a più mani’: il primo passa e fa una lettera, mentre già sto facendo l’atra, il secondo la colora e poi passa la mano al terzo che gli da gli effetti. Si fanno cose più colorate, più belle. Scritte di gruppo. È ormai difficile nelle zone critiche trovare delle scritte individuali. I temi non sono gran ché cambiati nel tempo. Sono sempre più o meno gli stessi. Ma il modo in cui vengono espressi è cambiato”.

I muri puliti non esistono e il graffito liberato dalla costrizione alla velocità si manifesta come una nuova forma di arte popolare. Non omologata, non ancora integrata, proibita se non viene fatta “dove vogliono loro e come vogliono loro”. Ma senza dubbio un’arte.

Nella cultura di un writer del resto, come  dice uno di loro, “tu fai arte e non rovini proprio niente, non rovini i muri. Non rovini l’arte. Non andrai mai a fare un graffito su un monumento, o sopra un bene artistico. Il graffito è da casa popolare, è l’arte popolare. Quei muri grigio sporchi, sbrecciati, che vedo quando esco di casa non sono certo arte e così mi dico, questa notte prendo le bombolette, lo zaino, esco e me lo faccio. E mi piacerebbe poter fare questo tranquillo. Purtroppo non è così”.